Nei pressi di Acquasanta Terme, a poca distanza da Castel di Luco – la residenza gentilizia della famiglia Ciucci – si trova Paggese, il cui nome deriva dal latino pagus, villaggio. Sorge su uno sperone in travertino, la stessa roccia usata per edificare l’affascinante incasato. Gli edifici, che sembrano assorbire la luce mutevole del giorno, presentano iscrizioni latine sui portali o sulle cornici delle finestre. Per questo motivo Paggese viene denominato il “paese dalle pietre parlanti”. Fra le abitazioni lattescenti, quelle più caratteristiche sono Casa Spalazzi, Palazzo Quaglia, Casa della Testuggine e la Casa Torre denominata “il Portone”. Le incisioni più particolari sono indubbiamente:

Non val ventura a chi non s’afatica- 1551” (Francesco Stabili, L’acerba, libro II, cap. I “Della Fortuna”, v.749)
Manet domus donec formica aequor bibat et lenta testudo totum perambulet orbem - Rimani oh casa, fino a quando la formica non avrà bevuto tutta l'acqua del mare e la lenta tartaruga non avrà compiuto tutto il giro del mondo;
Si patiens si sapiens - Se sarai paziente sarai sapiente.

Interessante anche l’immagine di un’incudine con martello, quasi certamente scolpita nel concio di travertino per segnalare la presenza di un fabbro nello stabile.
Accanto alla chiesa parrocchiale di San Lorenzo risalente alla seconda metà del XIII secolo, si trova la Loggia del Parlamento, così denominata perché periodicamente vi si riuniva il consiglio locale con lo scopo di confrontarsi su questioni socio–politiche. Qui è possibile ammirare un esteso affresco medievale, attribuito da alcuni studiosi a Stefano di Pietro, pittore genovese citato anche in alcune fonti documentarie dell’epoca. A destra si erge san Rocco, raffigurato con abito, conchiglia e bastone da pellegrino. Protettore dei coltivatori, fu ritratto così come voleva la tradizione iconografica. Con una mano sorregge la veste per mostrare la piaga sulla coscia, arrecata dalla malattia per cui veniva invocato: la peste. A sinistra si riconosce san Sebastiano trafitto dalle frecce. Il soldato originario della Gallia e martorizzato per volontà dell’imperatore Diocleziano, viene spesso rappresentato accanto a san Rocco poiché alla loro intercessione si affidavano i fedeli in caso di pestilenza. Al centro campeggia invece sant’Antonio Abate, vestito da eremita e con l’immancabile bastone corredato da campanella. Sopra la mano sinistra che regge la Bibbia aperta si intravede una fiammella. È un’allusione all’herpes zoster, comunemente chiamato “fuoco di sant’Antonio”. La pittura è inframmezzata da graffiti, appunti concisi, brevi testimonianze di episodi che in qualche modo sconvolsero la collettività. Grazie a loro sappiamo per esempio che il 20 maggio del 1633 nevicò; il 29 dicembre del 1697 fu commesso un omicidio al fosso e nella primavera dell’anno domini MDCLVI ebbe inizio la peste. Curiosa è la trascrizione di un proverbio: ASSAI GUADAGNA CHI FORTUNA PASSA / MA PIÙ GUADAGNA CHI *** LASSA. La parola cancellata per pudore, fu riportata da Giulio Gabrielli su uno dei suoi taccuini. Sotto al libro sacro stretto da sant’Antonio è visibile anche il Quadrato del Sator o Quadrato magico in cui, come consueto, sono effigiate le parole SATOR, AREPO, TENET, OPERA, ROTAS. Queste formano una frase palindroma leggibile allo stesso modo dalla prima alla quinta riga, dalla prima alla quinta colonna e viceversa. La parola TENET si interseca al centro, formando una croce. La lettera T è sempre affiancata da A e O che forse alludono all’alfa e all’omega, al principio e alla fine. Secondo diversi studiosi il quadrato aveva una valenza magico-apotropaica e veniva inciso sulla pietra per scongiurare malattie e catastrofi naturali. Uno dei più antichi fu rinvenuto nel 1925 a Pompei, sommersa dalla lava del Vesuvio nel 79 d.C. Ancora oggi risulta enigmatico il significato delle parole, criptica la direzione di lettura e pertanto dubbiosa la sua interpretazione.
Entro la chiesa consacrata al santo patrono del paese è possibile ammirare non solo opere pregevoli di Nicola Antonio Monti (Ascoli Piceno, 1736 – 1795), Pietro Alamanno (Furth bei Göttweig, 1430/40 – Ascoli Piceno, 1498 circa) e Dionisio Cappelli (Amatrice, XV secolo – Milano, XVI secolo), ma anche diverse pietre tombali con stemmi alludenti. Lungo la navata, infatti, ve ne sono tre particolarmente curiose: una appartenente ad un certo Veneriosio che presenta al centro del blasone una serpe velenosa; una di un Vitellius che nell’insegna esibisce un giovane bovino e una di Marcus Soffia che invece è dominata da due animali, i quali per l’appunto soffiano su quella che pare una fiamma.